Come non si può essere d’accordo.
I teologi moderni non hanno saputo fare ciò che, a suo tempo, fece Tommaso d’Aquino e tutta la Scolastica post-tomasiana.
Questa bella lagnanza mi sembra però che abbia uno strano sapore autoreferenziale di vecchia accademia: Accademia Pontificia delle Scienze, Università Santa Croce, Università Lateranense, et cetera similia. Queste pontificie entità sono dirette da professionisti che nei loro curricula avrebbero dovuto avere non solo una vasta cultura pregressa, sacra e profana, ma soprattutto mostrare di conoscere gli avvenimenti culturali più importanti degli ultimi decenni in campo scientifico e religioso (teologia, filosofia, ecc.).
Mi sembra, da quel che leggo, che questo non sia avvenuto. Infatti mi sovviene il ricordo di un testo recensivo che il caro indimenticabile amico, don Gianni Baget Bozzo, pubblicava dieci anni fa su “Avvenire” (11 Aprile 2002, idee/2). Gli avevo timidamente omaggiato un mio studio sull’«Anima e i suoi prodotti, Armando, Roma 1999» dopo aver letto una sua lamentela che in ambito cattolico si trascurava questo gran tema.
La risposta è stata fulminante. Quella di uno straordinario uomo di cultura e di saggezza che si era trovato sorprendentemente dinanzi ad un testo impegnato ed originale. E titolava: «La teologia dinanzi alla materia. Anche i quanti [le particelle elementari della fisica] hanno l’anima». “L’anima e i suoi prodotti” intendeva, ovviamente, i quanti del corpo umano nella teoria tomasiana dell’anima “forma corporis”.
La riflessione di don Gianni si attardava nell’indicare «un limite del pensiero cattolico a metà del secolo XX che aveva voluto fare i conti soprattutto con le scienze storiche e la Scrittura piuttosto che con le scienze fisiche». Ed aggiungeva, con quel suo fare tagliente e profondo, che «se vi è una categoria che ha tenuto le corde del gioco in tutto questo periodo è la Materia. Ma la Materia – incalzava don Baget con piglio filosofico di classe – non è la ule aristotelica priva di forme (materia prima) ma è la “madre mediterranea” che genera, per forza sua, continuamente i suoi figli [evoluzionismo]. Il materialismo riprende il suo concetto di materia dal mito e non dalla metafisica».
E continua, applicando, che «da ciò è nato il pregiudizio materialista [e positivista] per cui tutto si spiega a partire dal basso, cioè la struttura dell’evento».
Di seguito, il Nostro sottolineava il fatto che tale concetto pregiudizievole «ha pervaso anche le scienze e, quindi, l’esegesi biblica». E, per non restare nell’indeterminato, il compianto don Gianni si meravigliava sapientemente di poter finalmente leggere, nell’omaggio del mio “L’Anima e i suoi prodotti”, qualcosa che superava questo «iato fra mondo della teologia e delle scienze» già riportato (Heller, Basti, Tanzella. Di esser lieto di trovarsi di fronte ad un «raro metafisico classico che ha risciacquato i suoi panni nella scienza moderna ed ha trovato in essa le vie della metafisica».
Scendendo, nell’analisi del libro, ancora più in profondità, egli sottolinea con forza che si è finalmente capita «la potenza antimaterialista del principio di indeterminazione [Heisemberg] e della fisica dei quanti, e che dalla fisica veniva un colpo decisivo al mito della materia onniprovvidente» (materialismo, fisicalismo, evoluzionismo e cose del genere).
«Il merito di questo raro e sconosciuto metafisico (p. Antonino Stagnitta O.P.) e del suo libro di prodotti dello spirito, è quello «di aver ristabilito un rapporto tra la metafisica platonico-aristotelico-tomista e le scienze dell’umanità [fisica, psicologia, paleontologia, neurologia, matematica, logica…]: questo è un buon punto di partenza per ricostruire un pensiero cattolico». E don Baget sorride calorosamente: «lo stile dell’Autore è pungente ed ironico e lo esercita soprattutto contro gli evoluzionisti alla ricerca del canone [anello] mancante come Sherlok Holmes alla ricerca degli indizi, sempre sulla base della materia onniimpulsiva».
L’analisi di don Gianni del volume sull’Anima, il cui primo prodotto è il linguaggio, fa notare come «il principio di indeterminazione [della fisica quantistica] avrebbe dovuto rendere pensabili ai biologi il salto, cioè il principio di discontinuità che è il principio creatore. Ma, come dice lo Stagnitta [misterioso autore di quest’Anima e i suoi prodotti, EDI, Napoli 20112], essi sono destinati a cercare un gru [sic!] in cielo».
Continuando, il nostro gran maestro relatore fa ancora osservare che «qui si riprende tutta la verità della forma corporis tomista, stabilendo ad un tempo l’immanenza e la differenza, la continuità e la discontinuità della struttura e della res, del principio ordinante e della realtà organizzata. Ciò permette di fare economia di tutte le strade che imboccano al caso o alla eliminazione del problema dell’ordine del mondo e della vita della ricerca razionale».
L’indimenticabile don Gianni conclude esprimendo uno speranzoso desiderio: «Spero che i lettori capiscano l’importanza di questo libro per la razionalità della loro fede». Egli si permette di dare ai teologi un consiglio, da gran maestro qual era: essi devono sottrarsi all’amplesso nichilista della filosofia europea e ritrovare il contatto con la realtà quale le scienze fisiche e biologiche oggi le offrono. Ed, aggiungo io, far capire agli “scienziati” che debbono riscoprire una virtù che fu già degli Scolastici: “sapientia humilitatis splendor, l’umiltà. Credo che già qualcuno dei più grandi fisici moderni, il Penrose, abbia imboccato decisamente questa via, lasciando la saccenteria alle elucubrazioni dei micro-scientisti che popolano le esangui Università europee. Ne è limpida prova il titolo ed il contenuto del suo poderoso libro (1085 pagine): “La strada che porta alla realtà. Le leggi fondamentali dell’Universo” (per Rizzoli, 2005). Nella “Prefazione” si dice, fra l’altro, che «lo scopo del libro è trasmettere al lettore la capacità di apprezzare uno dei più importanti ed eccitanti viaggi di scoperta che l’umanità abbia mai intrapreso: la ricerca dei principi fondamentali che reggono il comportamento del nostro Universo. E’ un viaggio che dura da circa tre millenni e mezzo (…). Esso, però, si è mostrato estremamente difficile e, nella maggior parte dei casi si è arrivati ad una reale comprensione della Natura soltanto lentamente. Questa difficoltà intrinseca (sottolinea mia) ci ha condotto verso molte direzioni sbagliate: dobbiamo quindi imparare a essere cauti».
Don Baget Bozzo ricorda, con commozione, Tommaso d’Aquino che fu il maestro più apprezzato, a Parigi, nella facoltà delle arti, le scienze di allora (sec. XIII). Egli suggerisce a tutti noi di «seguire l’esempio del maestro».
E mi pare di poter francamente dire che il lavoro di decenni delle mie solitarie e misconosciute ricerche sono andate in questa precisa direzione per una convinzione mutuata dalla strana scelta mendicante e laicizzante del giovane conte longobardo Tommaso. Egli al seguito di Domenico e della sua “santa greggia ‘u ben s’impingua se non si vaneggia”, ci ha ancora una volta illuminati e sorretti col magistero di Papa Ratzinger che, nella sua “Deus caritas est” (2006), ci ha indicato la strada che porta alla Verità tutta intera.