Si
autodefinisce «una lettera luciferina» inviata al «caro Papa Ratzinger» e come «una
memorabile introduzione all’ateismo».
Mi ha meravigliato sapere che il “matematico-ateo” è
stato seminarista (Cuneo, 1959).
La prima impressione che si ha alla
lettura del libro “luciferino” è lo scorrere facile e leggero delle
proposizioni. Il Nostro ateo-matematico ha certamente raggiunto una mano
letteraria di notevole efficacia e, ne diamo atto, di profonda e larga cultura.
Non fa assolutamente difetto una “memorabile” dialettica che distingue ogni
pagina. Il discorso, però, vorrebbe trascinare il Santo Padre Benedetto in una
metaforica tragicommedia «di clown e
pagliacci» (pp. 13-14): i preti e i loro strani paludamenti di “Prada”
medievali e “Dolce e Gabbana” preistorici.
L’atteggiamento del matematico-ateo, nella lettera al Papa,
è impostato sulle ali dell’ironia e, a volte, del sarcasmo. La cattedra del
gran pulpito è evidentemente la scienza della matematica, dall’alto della quale
egli «pontifica» come semplice pontiere. Attacca, però, il «Pontefice» come
«capo pontiere» dei tempi imperiali (p. 16).
Ricorderà egli, certo, la biblica statua del Libro di Daniele (2, 31): “La testa d’oro puro (…), i piedi di
ferro e argilla”. Mi sembra la metafora della Matematica e dei suoi ministri
che si pongono sul pulpito fideista (Penrose) per poi chiedere al credente
cristiano, Papa Ratzinger, conto e ragione
della propria Fede.
Se non che un bel giorno, agli inizi
del secolo scorso, il gran logico-matematico Russell scopre, tra le righe dei
suoi Principia Mathematica (tr.it.
Longanesi, Milano 1988, p. 166 ss.), il paradosso della “Classe di tutte le classi che
non sono membri di se stesse, se è membro di stessa” ed altre similari
antinomie. Ne resta fulminato il gran matematico Frege che sta per pubblicare
il suo poderoso: “I principi
dell’aritmetica”, che deve dismettere, perché si dimostra fallace e
contraddittorio alla luce delle antinomie scoperte da Russell.
Non bastasse, un giovanissimo genio
matematico, Kurt Gödel, credente in Dio, e perciò un po’ sospetto, sconvolge
tutti col suo “teorema di incompletezza”:
all’interno di ogni sistema formale contenente la teoria dei numeri
(aritmetica) esistono proposizioni che il sistema non riesce a «decidere», cioè
a dimostrare se vere o false. Il teorema allerta, in negativo, il gran
“formalista” Hilbert e mette in ko il pròsopa
di Russell. Il quale, fra l’altro, è già incappato – nel tentativo maldestro
(Blanché) di risolvere il gran paradosso della “Classe di tutte le classi”… – nella “casuale” scoperta del concetto
di sostanza, fonte e centro della
metafisica aristotelica. Dalla magra figura metafisica fatta presso gli amici
logico-empiristi e positivo-materialisti, Russell cerca di defilarsi
dichiarando che quel concetto è logico e non ontologico: una magnifica
affermazione.
La ciliegina: Einstein, dopo aver
«detronizzato» l’euclidismo in geometria, in una famosa conferenza tenuta a
Berlino (1921), afferma che «nella misura in cui le proposizioni della
matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe e, nella misura in
cui sono certe, non si riferiscono alla realtà». Vale a dire che la “verità è
ancora tutta da scoprire”, se non siamo sicuri che ciò che è nella nostra mente
sia “uguale” alla realtà obbiettiva.
Allora: tutto il nostro discorso vuol
dire una cosa semplice. E cioè che i princípi, i postulati, le proposizioni
primitive della matematica e di tutte le scienze astratte e non, sono, allo
stato attuale delle conoscenze, come delle fedi
laiche che non si distinguono affatto dalle fedi
religiose (cristiane e non), come, ad esempio, gli amminoacidi delle “padelle
primordiali” degli evoluzionisti – da cui tutti, pare, proveniamo – e il fango
della Bibbia (Genesi 2, 7) da cui il
Padreterno plasma subito Adamo protobaterio, senza aspettare lo splendido “pupo
di fango”.
Il contenuto di queste fedi possiamo definirlo:
mistero inconoscibile e trascendente. Vale a dire che ogni fede e credenza ha i
suoi dogmi e i suoi misteri scritti nei cieli della metafisica o negli Iperurani delle scienze matematiche ed
empiriche-pure. Essi, principi e postulati, non si possono dimostrare o decidere con la ragione perché non sono
deducibili: non sarebbero primi principi o proposizioni primitive e postulati,
né si possono provare come veri o falsi, bensì solo giustificare come non
contraddittori, perché sono al di là della possibilità della ragione stessa a dimostrarli o
comprenderli: che misteri e postulati
sarebbero? E, quando si volle sbrogliare il famoso quinto postulato di Euclide,
si scoprì (Saccheri, Lobachevsky) che era possibile e
ragionevole una “geometria” detta proprio non-euclidea, senza scandalo di
nessuno: non si criticò aspramente la nuova scienza, anzi si intravidero nuove
possibilità della conoscenza del senso e della verità dell’essere. Oggi sono
molte le scienze non-euclidee.
Tommaso d’Aquino, addirittura,
precorrendo queste strane scienze, aveva scritto (Summa I, 1, 1 ss.) che “la
Teologia o Sacra Dottrina della Rivelazione” è una vera scienza, simile proprio
al non-euclideo: una bolla! E scrisse tante altre cose che fanno al caso nostro,
come ad esempio, che i Misteri rivelati e i Principi delle scienze tutte,
assolute o subordinate, sono proposizioni e realtà simili.
Ed è bene che il nostro matematico Piergiorgio
sappia tutto questo, al fine di non incappare in discorsi «estremamente
rischiosi» per conoscere «l’autentica realtà» o, come la chiama il grande
fisico americano Penrose: «Verso la
realtà», senza scomodare Freud o Feuchtersleben e le loro «psicosi nevrotiche»
ottocentesche. Per non parlare delle meschinelle «arguzie» letterarie di Borges
che confondeva, da buon poeta, la teologia della Rivelazione cristiana con la
«letteratura fantastica» delle sue poco apelliane alienazioni. Egli non aveva
la più pallida idea cosa fosse una scienza non-euclidea, come la concepiva il
longobardo Tommaso, già nel sec. XIII.
Quando Frege riceve la lettera di
Russel, che gli comunica la scoperta dal paradosso della “Classe”, mandando a
monte i suoi solidi studi per la formalizzazione dei principi della matematica,
pare abbia esclamato (deluso): «mal comune mezzo gaudio» (salarium miseris, socios habuisse malorum): si riferiva a Dedekind
e soci.
Bello il riferimento di Odifreddi a
Karl Marx e Umberto Eco (pp. 27-28), che danno della religione le iperuraniche
definizioni, «rispettivamente, come oppio [con milioni di morti] e cocaina dei
popoli [con milioni di malati]».
Il discorso del «caro Papa» era stato del più corretto
pensiero contemporaneo: l’uomo credente «deve
invertire la rotta (…) se vuole riconoscere quanto sia cieco allorché confida
solo in ciò che i suoi occhi vedono» (p. 27).
La sorpresa scandalizzata del
positivista Piergiorgio gli fa subito volger il pensiero alle droghe e drogati
di vecchio oppio e moderna cocaina del cui laico pipì sono pieni i nostri
fiumi.
Purtroppo, però, ogni dogma o postulato
o proposizione primitiva vanno descritti e giustificati con linguaggi vari che
debbono esprimere un certo senso logico di fronte alla ragione storica.
Tuttavia, di fatto, e spesso, alcune teorie profetiche e dogmatiche hanno
attirato e attirano dietro di sé popoli e nazioni in modo assolutamente
metafisico, prima di ogni esperienza, come è avvenuto, per esempio, col
marxismo storicistico (della miseria popperiana), materialista, profetico,
idealista, molto simile ai dogmi religiosi e a ogni fede che si dice rivelata
dall’alto. Essi, come ben sappiamo, hanno trascinato e trascinano il mondo
intero nel baratro nichilista di morte per Gulag, droga, fame, guerre e così
via.
A questo punto, l’amico matematico pare
abbia una chiara forma di resipiscenza, causata, forse, dal forte richiamo del
Papa alla «conversione». Egli, tuttavia, la chiama solo «fraintendimento». Non
è che la scienza – protesta Piergiorgio – rinunci «a cercare l’essenza nascosta
delle cose, a scandagliare le sostanze dell’essere stesso (…). Questa essenza
delle cose, che la scienza ricerca a partire da Parmenide e Pitagora, è
lontanissima dalle potenzialità del «vedere, udire, toccare», prendere a calci,
«in cui Lei [caro Papa] ritiene invece si esaurisca miseramente la sua
attività» (p. 29).
Il «caro Papa», però, non ritiene, ma
solo ripete le vostre fanfaluche
empirico-positiviste che lei, caro amico, distorce amaramente quando comincia a
scomodare, bontà sua, la fisica quantistica. «I veri elementi costitutivi della
realtà – scrive lei – risultano (…) le particelle elementari della materia (…)
che, in ultima analisi, sono energia». Essa (materia-energia, E = mc2)
si presenta, però, in ultima analisi, «ancora “oscura” di nome e di fatto» (cf.
ib.). Perciò niente certezze e
verità, se la “materia” è ancora una cosa da capire.
La contraddizione plateale e disumana
del nostro eccellente positivista logico-matematico è da cercarsi proprio nel
concetto di sostanza: si ripropone «la vecchia battaglia attorno a questo concetto». Per cui, ancora oggi, pare
non se ne venga a capo, in una bilancia che sempre oscilla, su e giù, secondo i
pesi che vi si mettono: però, Aristotele dopo Wittgenstein, “gigantomachía perì tès oúsias” (cf. pp.
28ss.).
I colleghi logico-empiristi del Nostro, credo, stiano
già strepitando e i morti positivisti dal loro “nulla” si rivoltano. Ma come?
Tu riproponi, per la scienza, la struttura essenzialistica della metafisica
aristotelica? Non abbiamo noi detto che le leggi
scientifiche vengono scoperte al modo empirico e verificazionista, e, perciò,
restano su quel piano? Ora tu ci vieni a dire che esse leggi sono la sostanza e
l’essenza del discorso scientifico, come hanno da sempre gridato gli
aristotelico-scolastici, con quel “barbaro longobardo” Tommaso e i loro “Universali”,
vecchia lagna boeziana? E le nostre “Classi” e “Insiemi” non sono forse i
vecchi “universali” della Scolastica?
Il «caro Papa», dal Nostro contestato,
aveva scritto che: “Abbiamo rinunciato a cercare l’essenza nascosta delle cose
e a scandagliare la sostanza dell’essere stesso (…). Sterile tentativo, sicché
la profondità dell’essere finisce per apparirci irraggiungibile” (cit. ib.).
Ma che disputa è questa? Si contesta,
prima, ciò che si concede poi. L’ironia di Odifreddi verso la gran cultura
cristiana è come la bandiera dell’Unione Sovietica ammainata il 25 Dicembre,
come un solstizio d’inverno: il trionfo dell’ossimorico matematico.
L’introduzione all’ateismo deve,
perciò, cominciare ad attrezzarsi per dimostrarlo, se ce la fa, quanto meno per
non essere spiazzata dalle numerose prove, cosmico-ontologiche, che di Dio si
fanno in abbondanza e in tutte le salse empirico-trascendentali,
metafisico-ontologiche, etico-praticistiche, postulatorie e
scientifico-logiciste, fisico-spazio-temporali dell’eternità e del tempo
dell’essere, ecc.
L’ateismo si faccia coraggio e ne cerchi altrettante «per rimanere credibile, opponendo risposte
di grandiosità comparabile» (pp. 29-30) per non sembrare che «sicuramente
non lo fa» allorché «nel pensiero moderno è andato a poco a poco affermandosi
un nuovo concetto di verità e di realtà» (p. 30). E’il già visto trionfo del
soggetto e sepoltura dell’oggettiva e sconosciuta “cosa-in-sé”.
Il pericolo è, caro matematico, di incappare nelle
«psicosi nevrotiche» ottocentesche dell’antireligione freudiana e di quell’altro
impronunciabile nome di chi era costui.
Purtroppo, nel passato molti seminaristi ci siamo
incappati. Solo alcuni più fortunati sono guariti, forse per intercessione di
“san” Darwin; altri, invece, siamo rimasti intrappolati nelle secche del
Vangelo di Gesù Cristo, d’amore e di salvezza.
Qui mi fermo, come una piccola introduzione
ad ogni futura scienza della ragione che traccia il movimento della Nuovissima Scolastica. Essa risponderà,
con rispettosa puntualità, alle tante belle pagine letterarie dell’introduzione
luciferina, se ce ne sarà tempo e voglia: Kafka docet!
Al caro amico Giorgio un consiglio
spassionato: riscopri la tua antica Fede e troverai la via della Verità e la
soddisfazione della Ragione. Insieme si potrà percorrere un itinerario
fortemente umano per salvare dalla
dissoluzione la speranza del mondo.