«Una matina un povero somaro,
ner vedè un porco annà ‘ar macello,
sbottò in un pianto e disse: -
Addio fratello,
nun ce vedremo più, nun c’è riparo!
Bisogna esse’ filosofo, bisogna.
Je disse er porco – via, nun fa’ lo
scemo
che forse un giorno
ce ritroveremo
in quarche
mortadella de Bologna!»
(Trilussa)
Dunque: Platone
parricida! Sentenza inattaccabile. Chi tocca Parmenide muore; anzi, no! E’ un
deicida e un nichilista. Il pensiero dell’essere che diventa nulla e sorge dal
nulla è un pensiero fallace perché pretende (come tutti i metafisici che
pretendono di tutelare la positività del positivo) che il nulla possa essere
predicato anche dell’essere, mentre così non è: il nulla può essere detto e
predicato solo del nulla. Pare che l’abbia scritto a chiare lettere il padre
Parmenide. Quel grande ha proclamato che solo “gli ignoranti a due teste, i
mortali che niente sanno”, possono dire che «l’essere e il non-essere è lo
stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v’è una strada che può esser
percorsa in due sensi».
Perciò, è falso dire che il nulla possa essere predicato anche
dell’essere: chi lo afferma è «un ignorante a due teste». E, dunque, «l’essere
non esce dal nulla e non ritorna nel nulla, non nasce e non muore, non c’è un
tempo, una situazione in cui l’essere non sia. Se era nulla, non era; se
ritornasse nel nulla non sarebbe» (Severino).
Chi afferma cose diverse è, perciò, un parricida e nichilista perché uccide il
padre essere. L’essere è, e basta. Attenti alle due teste.
Ma, il Neoparmeideo non aveva
proclamato solennemente ne La legna e la
cenere (Rizzoli 2000, p. 85) che «le parole essere e niente (…) non
sono più così estranee al pensare comune e che, perciò, «potremmo essere anche
un po’ più ottimisti (…). Tutti, più o meno, oggi sono convinti che nascere
significhi venire all’esistenza, e morire (…) significhi andarsene
dall’esistenza, cadendo nel niente?» Mistero delle antinomie metafisiche
neoparmenidee.
Se tutti, anche tu, Severino!
Qui la trattazione del termine “essere” vien fatta come una ballotta
scottante tra le mani del filosofo con significazioni che, nella loro presunta
scontata chiarezza semantica, rappresentano l’enorme infinito dibattito sul
significato del senso dell’essere. Infatti, dire che «l’immutabilità
dell’essere è posta da Parmenide mediante questa sola considerazione,
che tocca il fondo ultimo della verità dell’essere: se l’essere diviene (si
genera, si corrompe) non è», significa che non esiste altra lettura. E’ così, e
basta; non può essere diversamente e non si può dissentire, pena la sdegnosa
scomunica. «E questo va detto dell’essere in quanto tale [?!], sia che lo si
consideri come la totalità del positivo sia che lo si consideri come questa
povera cosa banale che è questa penna […]. L’essere, tutto l’essere, è;
e quindi è immutabile» (Severino).
Ora, mi sembra che quest’umbratile
discorso abbia bisogno, per esser ben letto, del fondatore dell’ontologia
ermeneutica: Hans Georg Gadamer.
Che significa? Significa che nel
suo: Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica (1960)
egli si pone il problema della verità
non in una forma astratta e per di più in linguaggi che nella loro sublime
astrattezza possono nascondere (come nascondono) solenni equivoci. Ma in forma
concreta, vale a dire nel confronto ermeneutico non solo col linguaggio ma
anche nella prassi. Ogni pensatore ha la possibilità di fare esperienza di quel
che dice col suo linguaggio. «L’essere che può venir compreso è linguaggio»
(Gadamer). E il linguaggio suppone un’idea che trae le sue significazioni
dall’esperienza calda e diretta con l’essere di tutti i giorni: nella gioia e
nel dolore, nell’amore e nella guerra.
Perciò mi pare che il linguaggio di Parmenide e dei suoi moderni
sostenitori abbia urgente bisogno di riinterpretazione e rilettura alla luce
della dimensione culturale della modernità anche e soprattutto nella prassi
(Gadamer). Perché trasferire nella modernità la lettura tradizionale o meno del
problema schietto del senso dell’essere può rivelarsi appaiata o fare la
medesima fine della infeconda impresa che è stata fatta, per esempio, dagli
sprovveduti pedissequi seguaci del tomismo aristotelico, con la perdita di
contenuti semantici di estrema importanza. Non solo, ma ad un attento esame del
discorso e del linguaggio parmenideo non si evince affatto quell’apparato di
tremendo effetto che vi legge il Nostro, lontano cugino del Sig. don
Chisciotte: deicidio, nilichilismo, immoralità, ecc. E giù parole pesanti come
macigni contro il Cristianesimo e la sua gente ormai taglieggiata nella terra
della menzogna e del tradimento: un’umanità piccola e sofferente schiacciata
per le sue piccole colpe da un mondo di feroci macchine di Turing, ancorché
felici.
Un caro amico, esperto e saggio
metafisico, Pier Paolo Ruffinengo, interviene in: Introduzione alla metafisica,
e dice che con umiltà [e maestria] vuole scrivere i suoi «Prolegomeni di
grammatica ad ogni metafisica che vorrà presentarsi come scienza. Anzi: Prolegomeni
di grammatica elementare…». Per far che? Semplice: poche righe per
distinguere tomisticamente il modo participio del verbo essere: essente
dal suo modo infinito essere, raccomandando a chi tratta e ballota
questo verbo di non usare mai rigorosamente l’uno al posto dell’altro.
Il discorso di Pier
Paolo, fidelis quaerens intellectum che segue, nella fede e senza
scandalo, il «cammino insieme» agli «agni della santa greggia» dove ben
s’impingua perché «non si vaneggia», mi trova non solo consenziente ma pronto,
se mi è concesso, a utilizzarlo come ermeneusi al gran discorso rivoluzionario
neo-parmenideo.
Il caro amico attacca facendo osservare che «in teoria sono tutti
d’accordo» per la distinzione (essente, essere). In pratica, però, la
distinzione non è affatto rispettata nonostante l’opera di Hartman e di
Heidegger: perché dietro la semplicità dei termini si nascondono problemi
veramente «molto complessi», che io chiamerei volentieri «divini» perché
infiniti.
E qui si scatena il sottilissimo
ragionamento di Pier Paolo, con la premessa che, «per evitare confusioni, è
essenziale rispettare sempre la grammatica. Solo dopo aver tradotto [i
frammenti del poema parmenideo] rispettando la grammatica si può dare
un’interpretazione del pensiero […]. Ma se la grammatica non è rispettata, non
si può nemmeno rispettare il pensiero».
Ed ecco la gran confusione dei
Vetero-postmodernisti che non solo non rispettano il pensiero parmenideo ma
realizzano, a tutto spiano, conclusioni devianti, deliranti, pretestuose,
untuose e barbariche in filosofia della prassi.
Cosa è barbarico? E’ quando un discorso cammina senza leggi ed allo
stadio primitivo e brado, tra selve selvagge e aspre, piene di belve e
scorpioni rispettando solo la Legge suprema dell’arbitrio, dell’astio velenoso,
della vendetta per «la barbarie bigotta» con la quale non si può fare, per
«ragioni profonde», il cammino in compagnia di appestati, et similia:
Barbara
celarent
savirini
ferioque: prima grande anarchia di
vergogna: confondere il Messaggio con gli umani operatori! Cialtroneria
psicoanalitica.
A dopo.
Il ritorno
alla preistoria: l’uomo di Neanderthal
|
L’amico grammatico, Pier Paolo,
prima di lanciare un devastante ictus pilorum di giavellotti, mette con
rispetto le mani avanti. Non vuole entrare nella proposta interpretativa del
pensiero greco fatta da Severino se prima «non è chiarito quel fondamentale
previo piccolo prolegomenon di grammatica elementare […]: la
correttezza, appunto grammaticale, della traduzione del testo greco che
rispetti la differenza tra “essente” e “essere”». Due parolette.
Il macellaio, però, prima di uccidere
l’essere parmenideo vuol capire se i capi non sono per caso malati. Ed ecco che
l’ésti gár èinai del presocratico viene tradotto con l’essere è…
Ma, primo difetto: se si aggiunge un articolo [lo], allora “essere”
(èinai) diventa sostantivo, come “la penna”, “la casa”, “l’asino”, ecc., mentre
Parmenide, che si suppone conoscesse bene la sua lingua, lo scrive senza
articolo.
Che vuol dire, caro pasticciere?
Vuol dire che quando il Neoparmenideo traduce il testo del poema di Parmenide
in contrasto con Aristotele, accusato di ambiguità per l’inserimento della
dimensione temporale (l’essere è, fin tanto che è), introduce una
interpretazione forzata e deviante per via della svista grammaticale. Infatti
si confonde il participio: “essente” (to òn), con l’infinito “essere” (èinai).
E si fa dire ad Aristotele, a Parmenide e a tutta la Tradizione quello che
presumibilmente non vollero dire. La scoperta da parte del Nostro di queste
originali letture retroattive del senso dell’essere gli ha dato l’opportunità
che cercava per saltar le righe e spezzare la cervice ai barbari macellai
dell’essere: atei, nichilisti, sovversivi, inquisitori, barbari ottusi,
oscurantisti e bigotti. Che felicità sbarazzarsi di loro! Ben ve lo meritate,
scopritori del nulla in faccia all’essere! Il nulla da voi concepito e
partorito contro la grande pura intuizione del padre Parmenide: (l’)essere (èinai)
è, (il) nulla (medèn) non è e non esiste. Questo vi ha traviato e
travolto e vi cancellerà dalla storia. Del resto pare che anche il vostro «Sommo
Giove crucifisso» abbia dubitato di trovare ancora fede sulla terra alla
sua seconda venuta alla fine dei tempi (cfr. Vangelo di Luca 18, 8).
Perciò, prendersela con Aristotele e
con tutti i buoni cristiani della grande Scolastica che hanno traviato
trascinando tutti al nichilismo è un atteggiamento prodotto da un equivoco
grammaticale (!). Infatti il testo aristotelico dice: «è necessario che to
òn (l’essente) sia, quando è; e to mē òn (il non-essente) non sia,
quando non è».
Manipolando e trasformando il
participio del verbo essere (òn-essente) in infinito (eìnai-essere)
si fa commettere ad Aristotele e a tutta la Tradizione scolastica quel delitto
nichilista che, invece, mai è stato commesso contro Parmenide: «l’oscuramento
del tempo che condiziona l’essere e compromette per il pensiero occidentale [e
quindi per il Cristianesimo che ne è la radice] la comprensione del senso
dell’essere» (Ruffinengo).
Infatti, dire che l’essere è, fin tanto che è, e il non-essere non
è, fin tanto che non è, oscura,
- intuisce il Neoparmenideo – e compromette niente di meno che tutto il
pensiero occidentale: non gli fa più afferrare il vero senso dell’essere
che Parmenide invece aveva collocato nella dimensione illuminante che è al di
fuori del tempo e dello spazio: un vero Dio eterno, immobile, assolutamente
Uno. Ammettendo il tempo, lo spazio e il divenire non si può più concepire
«un Dio eterno». Ecco, quindi, il parricidio e la macellazione nichilista di
ogni divinità, compresa naturalmente quella prodotta dalle sovrastrutturate
fantasie di alcuni pensatori popolareschi atei del nostro tempo occidentale: un
dio antropomorfo e pantamorfo che veramente non esiste perché non può esistere.
C’è anche un’autodifesa del
Neoparmenideo che suggerisce a chi dovesse opporgli certi ragionamenti
grammaticali di «incominciare a pensare» perché in questo campo minato
della filosofia «la grammatica e la filologia non servono a nulla» (riportato
da Pier Paolo).
Per dirla chiara: in verità io sapevo che la grammatica appartenesse alla
logica e la filologia fosse figlia della scienza del linguaggio e della storia.
Farne a meno, in nome di una supposta dimensione metalogica del pensare,
significa mettersi fuori del pensare di tutti noi miseri mortali: Sansone ha
accoppato d’impeto tutti i Filistei cafoni e borghesi, nemici e ribelli,
nichilisti e dimentichi del senso dell’essere, immorali e responsabili
dell’emergere della civiltà delle macchine che ha soppiantato il Dio della
tradizione. E’ la tragedia del nostro tempo causata da un problema…
grammaticale e filologico (!?).
Ma Sansone stragista filisteo ed
eroe biblico sopprime anche sé stesso sotto le macerie della gran costruzione: muore Sansone con tutti i suoi Filistei!
Peggio per loro! La spallata alla Civiltà Occidentale e Cristiana che si vuole
dare con un autodafè è il chiaro suicidio di tutti i mêtres-a-penser del
nostro autentico declino: la vera criminalità macellaia che ha distrutto i
valori che hanno fondato il mondo “moderno”.
Pretendere perciò, che da una
confusionale e sgrammaticata lettura del significato del senso dell’essere in
Parmenide se ne possa trarre motivo di condanna esistenziale per tutta la
Tradizione filosofica occidentale, e massimamente delle Chiese cristiane, mi
pare essere un’enormità da tregenda. E’ il classico illecito passaggio che già
si contestò a Sant’Anselmo per l’argomento ontologico: dal piano ideale al
piano reale.
A dopo.
Ma, insomma, cos’è quest’essere
di cui si parla e la sua esistenziale negazione?
Mi convinco sempre più che l’essere «è quello che si è cercato già da
molto tempo» (Numenio, Frammenti 3,6) e che pare finalmente sia stato
trovato ai nostri eccelsi tempi, anzi riscoperto perché Parmenide ce ne aveva
già squadernato tutto il «senso». Solo che il suo pensiero, sballottato tra
mani improprie e profane, ha prodotto il non-essere: la fine del mondo, il Big
Crunch, la grande inflazione finale, il nichilismo.
Menti occhiute hanno visto chiaro
questo macello, e si sono ribellate: bisogna solo affermare che l’essere è.
Ogni altra «illuminazione di senso» (Heidegger) manifesta una presenza
irreligiosa e nichilista. E se qualche malcapitato dicesse: e il non-essere
cosa è? Apriti cielo! Dicendo «cosa è il non-essere» è stata pronunciata
la magica parola alienante di Aladino che ha fatto scomparire ogni ben di Dio,
buttando l’essere, il caro essere, nel nulla di sé, «vuoto gioco di
parole senza senso e melodia suonata da pianisti senza alcun talento» (Rudolf
Carnap).
Orrendo parricidio! Tutte le cose
sono nulla. Anzi, se il Tutto, cioè «l’essere» è eterno ed immutabile, affermando il non-essere dell’essere, il
nulla, si dice chiaramente che il divenire del mondo (il non-essere
dell’essere) è un crimine efferato, una gigantesca illusione che ci ha tutti
scaraventato nel baratro: questo è il vero nichilismo, inconscio o no, della
cultura occidentale creazionista, ci sia o no un creatore. Mentre «il sentiero [indicato da Parmenide] è dove si
giunge a scorgere che ogni istante è eterno, che eterna è ogni cosa, ogni
relazione, ogni qualità, ogni situazione»: il divenire è essere… immutabile
(Severino, Parmenide tradito
dall’Occidente. Un saggio di Popper, in: «Corriere della Sera»
(quotidiano), Elzeviro, 02 febbraio 1999). E se i sensi falliscono resta solo
la metafisica parmenidea, quella vera, concreta e calda, reale, assoluta… et
si sensus deficit sola fides sufficit (S. Tommaso, Festa del Corpus Domini,
Inno: “Tantum ergo”).
Tutto ciò mi sembra corretto per un
verso: quando cioè si volesse trasferire il mondo platonico della verità e
autenticità dell’essere nella mente di Dio (Agostino-Boezio). Perché, ogni
istante, ogni cosa e situazione, ogni categoria del nostro mondo, noi compresi,
preesistiamo in Dio, come idea,
dall’eterno, e sempre preesisteremo in ogni istante del nostro essere, senza
identificarcene: questo esige il concetto di un Dio trascendente, infinito ed
eterno, Essere necessario che prescinde dal tempo e dalla contingenza, ma
naturalmente non escludendola.
Ma, per altro verso, il discorso mi
sembra scorretto quando tale ontologia mondana rimane nell’ambito cosmologico
dell’essere parziale. Perché, l’essere di Parmenide: o è teologico, e
così si concepisce un Theòs vero e proprio, eterno e immutabile, anche
se non lo si chiama così. Oppure è cosmologico, ed allora ci si chiederà
sempre: cosa c’era prima del cosmico essere in espansione e perciò in movimento
che la scienza contemporanea pone aver avuto inizio col Big-Bang? Tenendo
presente che l’eterno non è transitabile, mi chiedo: se io, essere parziale non
necessario perché non-eterno, contingente sono ora e qui mentre prima non ero,
da dove provengo? Ora e qui significa tempo e spazio e divenire che non
sono l’eternità. Essi presuppongono un inizio. Perciò, da dove? Dal Big-Bang? E
prima? O forse il divenire è illusorio e l’Universo è stazionario in barba a
tutti i cosmologi e ai loro grandi telescopi Humble che, invece, oggi lo vedono
in espansione e quindi diveniente da un punto d’inizio?
Pensare un Universo cosmologico
stazionario (Aristotele, Parmenide, alcuni Moderni…) infinito nel tempo e nello
spazio [modo di dire] significa l’essere che è e che non può non essere. Esso
sarebbe, però, infinitamente insondabile e quindi irrazionale come una √2: una realtà senza ragione.
Questo è il vero nichilismo: senza ragione, perché rende inutile anche questo
mio ragionare e quello di tutti gli atei, compreso Parmenide e i suoi ipse
dixit. D’altronde una sequenza di Universi e di Big Bang non porta da
nessuna parte perché, se non c’è inizio, come è che diviene?
E allora? L’essere di Parmenide, letto dai suoi moderni seguaci
non porta da nessuna parte, come non ce lo porta il non-essere totale
dell’essere totale. Perché: supposto il nulla assoluto, il nulla è eterno, cioè
resta tale. Per cui giustamente: perché l’essere anziché il nulla? Si può
replicare: il tempo è una proprietà dello spazio-universo, è una sua dimensione
(Einstein). Quindi, prima dell’inizio dell’Universo esso non esisteva, ma
esisteva l’eternità del tutto e non il nulla. Infatti, l’eternità senza tempo
significa “qualcosa” che c’è, ma senza l’essere in divenire: non il nulla.
Perciò, ha ragione Parmenide. Tuttavia c’è un’osservazione da fare: cosa è il tempo, e chi è che lo
percepisce? Il tempo è la percezione dell’essere in divenire da parte del
soggetto, è la conta del prima e del poi. E’ questa percezione cognitiva
dello scorrere che dà il senso al tutto, è una razionalità che si insinua
nell’Universo non più stazionario e irrazionale ma in continua… fluttuazione.
La razionalità ne segue ogni gioco. Il tempo è come gli oggetti matematici.
Essi sono reali e obiettivi ma non possono esistere senza una mente che li
ponga, li pensi e li gestisca nella grande loro danza. Ma, se il tempo è la
quarta dimensione cosmologica dopo le tre dello spazio, allora l’universo
fisico-cosmologico è immerso in questa specie di “etere”: lo spaziotempo!
Se «nel pensiero di Parmenide
tutte le cose [dell’Universo?] sono nulla, sì che ad essere eterno ed
immutabile rimane soltanto quel puro “Essere” che come pura luce acceca ed è cieco»,
allora sembra leggersi un Essere divino e luminoso ma… cieco, irrazionale,
non-conoscente, impersonale. Esso addita la «splendente profondità di questo
pensiero che lascia dietro di sé ogni altra sapienza dell’Occidente e
dell’Oriente» (Severino). Grandioso!
Questo luminoso e splendidamente
cieco discorso mi sembra abbia bisogno tuttavia di una cura di vitamine
dell’intelligibile. E certamente non è esso affatto un «dar conto del suo contrastato potere» di contro alla
grande «incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare
ogni realtà eterna, immutabile, divina che sovrasti il divenire, lo domini e lo
guidi» (Nietzsche).
A dopo: accanto al neo-realismo e ai
suoi deboli e meno deboli risuscitati
guru della laica filosofia del Novecento italiano che, per non avere nomi
anglosassoni, pare scomparsa e annichilita dal nulla di un buco nero.